Dopo un primo showcase tenuto quest'estate e qualche data estiva di try-out, L'Ultima Strega - frutto dello sforzo produttivo di GiuliaEventi - debutta al Teatro Brancaccio, tentando il contatto con il pubblico romano (che, si sa, non è certo uno dei più facili da conquistare!).
Cominciamo dalle definizioni. Nel corso del tempo, in locandina, sono apparse varie diciture: pop musical, il musical - pop drama, musical drama... ma, in fin dei conti, cos'è L'Ultima Strega? Sicuramente, non è un musical (almeno, non in senso stretto). Abbandonando le solite disquisizioni scolastiche sulla distinzione più o meno netta delle varie declinazioni di teatro musicale, il musical - nell'accezione più americana del termine - è una produzione teatrale, televisiva o cinematografica che fonde dialogo, canto e danza per raccontare una storia convincente in modo convincente.
Dunque, per etichettare uno spettacolo come "musical," è sì necessaria la compresenza di almeno due delle tre discipline, ma non basta: la loro reciproca intersezione, l'equilibrio e l'integrazione con la storia sono elementi preponderanti!
Visto in quest'ottica, L'Ultima Strega non è un musical. Le varie componenti sembrano a sé stanti e il piatto della bilancia pende sul versante delle parti dialogate quindi, dando a Cesare quel che è di Cesare per evitare che il già confuso pubblico travisi maggiormente la vera idea di musical, sarebbe più opportuno definirlo "prosa con musiche."
Identificato l'oggetto, saggiamone adesso la qualità. Il libretto di Andrea Palotto non è abbastanza forte per far fronte alle esigenze della storia: i personaggi sono troppi e nessuno di loro - nemmeno i protagonisti - viene approfondito a dovere; c'è molto materiale superfluo che andrebbe tagliato o riscritto; la storia è già contorta di suo e le due linee temporali in cui si dispiega il racconto, non essendo ben gestite, non aiutano certo a renderla più chiara.
A questo si aggiunge la regia dello stesso Palotto che non sopperisce alla mancanza di dettagli dello script, rendendo il tutto ancora più astruso.
Delle musiche di Marco Spatuzzi ricordo ben poco. Brutto segno. Sono ben chiari i "riferimenti musicali" (chiamiamoli così che è meglio) dell'autore. Nella partitura troviamo molto Sondheim, molto Jason Robert Brown e un pizzico di Kander & Ebb... con una sola differenza: pur nella loro complessità, i compositori sopra citati mantengono una certa linearità e i loro brani riescono ad essere ricercati e popolari allo stesso tempo. Nel caso de L'Ultima Strega ci troviamo davanti ad un'accozzaglia di suoni e parole piazzate quasi a casaccio in svariati punti della narrazione, senza portarla avanti. Non c'è un pensiero dietro ogni canzone e, nella maggior parte delle volte, non c'è una ricerca di quel momento tensivo che porta i personaggi a cantare. Magra consolazione la presenza di una piccola orchestra dal vivo che fa incassare un punto di favore all'intero spettacolo.
Con una materia prima così debole, è fisiologico che il cast non riesca a dare il meglio di sé. Valeria Monetti fa di tutto per arrivare alle orecchie della gente, ma non riesce ad arrivare al cuore... e non è facile arrivarci se mentre intona una delle sue arie alle sue spalle accade "letteralmente" di tutto. Cristian Ruiz si ritrova schiacciato da un ruolo che soffoca le sue potenzialità. Teoricamente, Tschudi dovrebbe essere co-protagonista ma l'intricata drammaturgia relega il personaggio ai margini della vicenda in termini sia quantitativi (sono poche le scene a lui dedicate), sia qualitativi (tra i pochi momenti, nessuno risulta preponderante per lo sviluppo della sua psicologia all'interno della storia). Nonostante questo, Ruiz rimane uno dei migliori performer italiani... solo lui può cantare "Un piatto freddo" e risultare convincente!
Lo stesso vale per Valentina Arena (Teresa), Andrea Fazio (Lukas) e Daniela Simula (Sarah) che - se diretti meglio - avrebbero potuto dare, senz'altro, una chiave di lettura più matura ai rispettivi caratteri.
Il personaggio che più mi è sembrato esser stato abortito strada facendo è Padre Mottini (interpretato da un Igino Massei dalla zeppola latente). Solitamente, a fine spettacolo, ogni domanda trova risposta. In questo caso non ho trovato spiegazione all'avversione nei confronti dell'Italia che Mottini manifesta nelle prime scene: non sarebbe stato interessante approfondire questa conflittualità tra un uomo e il suo paese d'origine?
Anche l'ensemble risulta un po' sotto tono e non sempre coeso nei movimenti e nelle parti corali. Chiudono il cast, in ordine alfabetico: Salvatore Bandiera, Debora Boccuni (Klara), Chiara Carpentieri, Gerry Gherardi (Leopold), Raffaella Monza, Marta Petragallo, Francesco Properzi, Andrea Standardi (Fabien/Karl), Manuela Tasciotti (piacevolissima riconferma, nel ruolo di Martha Vart) e Claudio Zanelli (Peter/Albrecht).
Scenografia non sempre funzionale, costumi esteticamente sgraziati, disegno luci frettoloso e volumi troppo alti completano il pacchetto di questo spettacolo che si è "leggermente" sopravvalutato.
QUOD AVERTAT DEUS.
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